Co-housing, co-working, senior housing e co-living sono le nuove tendenze di ottimizzazione e condivisione spazi, riduzione spese e contaminazione positiva tra individui. Dall’Inghilterra arrivano esempi da seguire.
di Paola Savina, Civiltà di cantiere – 22/05/2020
“Condivisione” sta diventando sempre più una parola chiave nella nostra società. In un mondo a risorse limitate e in cui negli ultimi decenni si è attinto selvaggiamente alle fonti naturali a disposizione, è arrivata ormai nella vita di tutti, nelle case di tutti, la consapevolezza che condividere è la strada da seguire per far bastare a tutti ciò che abbiamo. Se a questo si aggiunge un cambiamento demografico di carattere mondiale, particolarmente accentuato per il nostro paese e che ridefinisce i volumi e gli equilibri della popolazione, allora la condivisione diventa ancora più importante.
Nel mondo, siamo secondi solo al Giappone, in termini di “vecchiaia”. I dati freschi del 2020 segnalano che il 7,5% della popolazione italiana ha più di 80 anni, contro un 9% in Giappone e un 5% di media nei paesi più sviluppati e le previsioni future non fanno che confermare e acutizzare questo trend. Inoltre, la scarsità delle opportunità lavorative offerte, i bassi redditi, l’elevata tassazione rendono difficile affrontare i costi della quotidianità e spingono i giovani a cercare una miglior qualità della vita all’estero.
In risposta a questo scontro di fenomeni viene da dire “viribus unitis”: se è vero che l’unione fa la forza, far fronte a queste nuove realtà della nostra società tramite l’unione, la collaborazione e la partecipazione collettiva è una reazione vincente.
Esistono oggi diverse modalità di condivisione, in ambito sia lavorativo che sociale, che prevedono una partecipazione congiunta di persone, di lavoratori o di nuclei famigliari: la “co-ndivisione” sotto forma per esempio di “co-housing”, di “co-working”, di “co-living” e altri ancora.
Il più longevo di tutti è il co-housing, un modello abitativo di origine danese, comparso già a fine anni ’60. Nato dall’iniziativa di una cinquantina di famiglie, la sua origine deriva dalla necessità di condividere uno spazio abitativo per ridurre i costi e poter contare sull’aiuto reciproco.
La peculiarità del co-housing, che la distingue dal più moderno concetto di social housing, sta proprio nelle sue radici: i progetti sono di piccole dimensioni, definiti e guidati direttamente da poche persone, piccole comunità, che spesso si conoscono già e desiderano creare sinergie condividendo alcuni spazi in comune. Il social housing è la sua derivazione a grande scala in cui, grazie all’appoggio di associazioni e fondazioni di medio-grande entità, vengono dedicate abitazioni a prezzi calmierati a una fascia di popolazione media, che si troverebbe in difficoltà a sobbarcarsi i costi del mercato immobiliare odierno.
Oltre al risparmio economico, con abbattimento spese e massimizzazione di efficienza energetica, si coltivano le relazioni sociali, il supporto reciproco del vicinato e gli interessi comuni del quartiere. Insomma, di necessità si fa virtù e si rievocano tutte le buone abitudini di una volta che col il tempo e con il progresso galoppante, sono andate perdute.
Il recupero di questi importanti valori sociali è particolarmente accentuato nei centri di “senior housing”, un altro ramo in materia di insediamenti abitativi condivisi dedicato al mondo over 75. Questa soluzione abitativa trova la sua centrale ragion essere nel ristabilire una collaborazione e un sostegno tra chi popola queste realtà, per rendere più agevoli le piccole azioni di vita quotidiana, sfrattando la solitudine dalle mura casalinghe.
E se lo spirito di condivisione lo applichiamo anche alla sfera lavorativa? Otteniamo gli spazi di co-working. Più giovane del co-housing, il co-working nasce in California nel 2005 ed è arrivato in Italia solo 3 anni dopo. Perché anche qui, l’unione fa la forza. Messo un piede nell’era della sharing economy, per rendere più produttiva la giornata lavorativa, la contaminazione tra settori, ruoli e mindset diversi diventa preziosa.
La massima evoluzione e fusione dei concetti di condivisione è oggi il co-living, che mette insieme le caratteristiche del co-housing e del co-working. Perché condividere solo le mura di casa o le scrivanie in ufficio, quando si possono condividere entrambe le cose?
Best practice dal Regno Unito
Il co-living è la forma più completa e trasversale di condivisione, che corrobora l’esigenza sempre più evidenziata dalle società di far leva sulla comunità per vivere riconquistare una qualità della vita che si sta perdendo. I modelli più illuminanti arrivano dall’estero, in Italia il mercato del co-living è ancora acerbo.
Basta fare un salto a Londra e fresco fresco di apertura troviamo The Collective, nella Canary Wharf building, il nuovo spazio di co-living che da ottobre 2019 ha preso forma a nord di Londra (Old Oak) grazie al lavoro dello studio PLP Architecture. La struttura, destinata principalmente a studenti e giovani lavoratori stabilizzati nella metropoli, oltre ad appartamenti nuovi e spaziosi, offre alla comunità ogni genere di servizio e confort, da aree di co-working a zone dedicate a sport, benessere e tempo libero, come piscina, palestra, sauna, una cucina in stile Masterchef, libreria, cinema e golf virtuale. Il tutto a un prezzo di accesso davvero conveniente, garantendo uno stile di vita che diversamente, un under 35 londinese non si potrebbe permettere. Qui, flessibilità è la parola d’ordine. La struttura al momento può essere infatti utilizzata anche come semplice hotel, dando la possibilità a visitatori flash di prenotare anche solo per una notte (a partire da 80 £).
Un’altra best practice inglese si chiama Noiascape, ideata nel 2017 dai fratelli Teatum, architetti nativi londinesi del quartiere West London. Il progetto è una vera e propria integrazione verticale, si basa su un lavoro curato dalla A alla Z: dalla selezione degli edifici da destinarsi al co-living -vecchie case londinesi – all’acquisto, ristrutturazione e inserimento nel mercato. La peculiarità di quest’attività sta nella gestione end to end, che vede i due architetti anche imprenditori e gestori delle proprietà in possesso.
Una struttura esemplare, nata dal network di Noiascape è la Garden House situata ad Hammersmith’s Grove Mews, frutto di una totale bonifica e trasformazione di una casa vecchio stile. La struttura si estende per circa 100 metri quadri e inverte le tradizionali sistemazioni della zona giorno e notte: le camere da letto sono al piano terra, mentre le sale da giorno e da lavoro assumono una nuova importanza e si collocano al primo e secondo piano. Questa disposizione consente un collegamento diretto tra lo studio al secondo piano e un giardino sul tetto per rendere più piacevole il lavoro da casa. Tutti gli spazi sono costruiti con materiali che creano forti contrasti tra loro: le pareti in calcestruzzo fuso, i mobili per l’arredamento di morbido legno di bhttps://noiascape.com/etulla e i pavimenti di cemento pigmentato rosso si fondono e si scontrano in un conflitto di stili e forme, che dona carattere, energia e tridimensionalità all’ambiente. Flessibilità e fluidità sono le sensazioni preponderanti per chi vive questi spazi. “Crediamo che vivere nelle grandi città sia un’esperienza sociale basata sull’incontro e sull’interazione con altre persone” spiegano i fratelli Teatum “ed è per questo che continuiamo a costruire un network di spazi in tutta la città che possano essere accessibili a tutta la comunità Noiascape”.
Una “finestra sul cortile” per prepararsi al meglio a coltivare soluzioni di edilizia sociale di questo genere, guardandosi intorno e respirando a pieni polmoni le iniziative modello già percorse altrove, come ci insegna il Regno Unito.